«Overcommission» fuori campo IVA
Dott. Alessio Pistone | 17/02/2014
I diritti di negoziazione, anche detti overcommission, riconosciuti sulla base di prassi commerciali nel settore dell’advertising e del marketing, dalla “casa madre” ai centri media “satellite” che raccolgono le iniziative pubblicitarie dei clienti, quando sono erogati, sotto forma di denaro, in assenza di una specifica clausola contrattuale che obbliga il centro media a determinate prestazioni qualitative o quantitative, costituiscono operazioni fuori campo IVA e, pertanto, la “casa madre” non può detrarre l’imposta su tali erogazioni di denaro. È quanto stabilito dalla C.T. Reg. di Roma, con la sentenza del 30 dicembre 2013, numero 210.
In linea generale, l’erogazione di somme di denaro da parte di un fornitore ad una società/ditta cliente può derivare dal raggiungimento da parte di quest’ultima di determinati obiettivi di vendite o di risultati di qualità contrattualmente previsti (bonus qualitativi/quantitativi), come tipicamente avviene, ad esempio, per i concessionari automobilistici: in questo caso, dette erogazioni di denaro costituiscono la remunerazione da parte del fornitore di vere e proprie prestazioni di servizi ulteriori poste in essere dal cliente rispetto all’operazione principale e, pertanto, di operazioni soggette ad IVA.
L’erogazione di denaro di cui trattasi, tuttavia, può anche avvenire non in forza di clausole contrattuali, come il raggiungimento di determinati volumi di vendite, ma per volontà unilaterale del concedente e, quindi, in assenza di qualsivoglia condizione o, meglio, obbligo di effettuazione di prestazione da parte della società/ditta cliente: in tale ipotesi, la somma di denaro corrisposta si considera esclusa dal campo di applicazione dell’IVA ai sensi dell’art. 2, comma 3, lett. a) del DPR 633/72.
Tale posizione è stata da tempo sostenuta dall’Amministrazione finanziaria, secondo cui, ove i premi in questione siano erogati a titolo gratuito, senza che ciò faccia sorgere nel beneficiario alcun obbligo di fare, di non fare o di permettere, detti premi, costituendo “cessioni di denaro”, sono da considerare fuori del campo di applicazione del tributo ai sensi del già citato art. 2 del DPR 633/1972 (cfr. R.M. 23 settembre 1974 n. 502713 e R.M. 416531/86).
I bonus quantitativi, invece, secondo l’Agenzia delle Entrate, sono premi assimilabili al pagamento di una remunerazione specifica e ulteriore rispetto a quella ordinaria. Si tratta, infatti, di un incentivo diretto a premiare un’attività, anch’essa, ulteriore rispetto a quella principale. Dette somme, quindi, configurando incentivi corrisposti in vista dell’incremento del numero delle vendite, si traducono in una corrispondente riduzione dei prezzi originariamente praticati dalla società all’atto della cessione dei prodotti al concessionario. Tali bonus, pertanto, sono da assoggettare al medesimo trattamento riservato agli “abbuoni o sconti previsti contrattualmente” di cui all’art. 26, comma 2, del DPR 633/1972, in relazione ai quali è ammessa la possibilità di emissione, da parte del cedente o del prestatore, di “note di accredito” con IVA a favore della controparte (cfr. ris. 120/2004).
La Suprema Corte, peraltro, con la sentenza 5006/2007, richiamata anche dalla decisione di merito in oggetto, ha stabilito che nel caso di corresponsione di denaro in funzione liberale senza alcun collegamento causale con singole e determinate cessioni imponibili, non è ammessa la procedura di variazione in diminuzione dell’imponibile e dell’imposta ex art. 26 del DPR 633/1972, trattandosi, appunto, di liberalità.
I giudici romani, con la pronuncia odierna, hanno aggiunto che la discriminante per considerare tali erogazioni di denaro in una categoria piuttosto che nell’altra e, quindi, dentro o fuori campo IVA, è individuabile “negli accordi contrattuali sottostanti che devono trovare adeguata documentazione sia sostanziale che contabile”. Nel caso di specie, non era emerso dal contratto esibito alcun specifico obbligo dei centri media connessi all’erogazione delle overcommission da parte della “casa madre”, anzi risultava espressamente pattuito che l’attività svolta da tali centri era remunerata mediante le ordinarie provvigioni sulla campagna pubblicitaria “acquisita” e che esse soddisfacevano ed estinguevano qualsiasi altra pretesa tra le parti. Peraltro, dalle generiche fatture allegate non era neppure possibile comprendere per quali asserite prestazioni esse fossero state emesse.
Alla luce di ciò, il collegio di merito ha stabilito che non vi era, quindi, alcuna possibilità di annoverare i diritti di negoziazione in oggetto tra i bonus qualitativi o quantitativi soggetti ad applicazione dell’IVA. Ne conseguiva la correttezza del disconoscimento, da parte del Fisco, della detrazione dell’IVA operata dalla “casa madre” sulle somme erogate ai centri media.