Responsabilità «231» senza confisca e sequestro del risparmio di spesa

| 29/01/2014

Affinché si possa individuare un profitto assoggettabile a sequestro e confisca, anche per equivalente, ex artt. 19 e 53 del DLgs. 231/2001, è necessario che si verifichi, quale diretta conseguenza della commissione di un reato presupposto, uno spostamento reale di risorse economiche, ossia una visibile modificazione positiva del patrimonio dell’ente, evitando improprie assimilazioni tra la nozione di profitto del reato, inteso quale accrescimento patrimoniale, e la causazione di meri danni risarcibili relativi a risparmi di spesa indebitamente ottenuti dall’ente. La precisazione in materia di responsabilità “231” è resa dalla sentenza 24 gennaio 2014 n. 3635 della Corte di Cassazione.
La Suprema Corte sottolinea, in primo luogo, come l’istituto della confisca (anche per equivalente), disciplinato dall’art. 19 del DLgs. 231/2001, trovi il suo fondamentale presupposto nella sentenza di condanna per uno dei reati ivi tassativamente previsti, dalla cui commissione sia derivata l’acquisizione di un profitto illecito per la società. Di conseguenza, ai fini del rispetto dei principi di legalità e di irretroattività, ribaditi dall’art. 2 del DLgs. 231/2001, occorre fare riferimento alla data di realizzazione delle condotte costituenti reato e non al momento di percezione del profitto stesso. Ed infatti, il principio di legalità di cui sopra subordina l’applicazione delle misure sanzionatorie ad una previsione espressa, sia in ordine all’illecito che al tipo di sanzione, che deve essere entrata in vigore prima della commissione del “fatto”, da intendersi come ciò che costituisce reato.
In altri termini, è il momento consumativo del reato a rilevare ai fini dell’applicazione delle sanzioni previste dall’art. 9 del DLgs. 231/2001, nel senso che l’intera disciplina sanzionatoria non trova applicazione a fatti commessi prima della sua entrata in vigore; ed anche con riferimento al sequestro finalizzato alla confisca per equivalente, di cui all’art. 19 del DLgs. 231/2001, è sempre e solo l’accertata consumazione del reato a determinare la possibilità di acquisizione coattiva del profitto illecitamente conseguito.
In tema di corretta determinazione del profitto assoggettabile a confisca (e sequestro), inoltre, occorre partire dalle fondamentali indicazioni della sentenza 2 luglio 2008 n. 26654 delle Sezioni Unite della Suprema Corte, nella quale si è, innanzitutto, sottolineata la necessità di una correlazione diretta del profitto con il reato ed una stretta affinità con l’oggetto di questo, escludendosi qualsiasi estensione indiscriminata o dilatazione indefinita ad ogni e qualsiasi vantaggio patrimoniale che possa scaturire, pur in difetto di un nesso di causalità, dall’illecito. Peraltro, sulla base di quanto previsto dall’art. 19 comma 2 del DLgs. 231/2001, la confisca per equivalente, essendo finalizzata a colpire beni non legati da un nesso pertinenziale con il reato, potrebbe avere ad oggetto, in ipotesi, anche vantaggi economici immateriali; e, tra essi, ben potrebbero farsi rientrare quelli prodotti da economie di costi ovvero da mancati esborsi.
A tale riguardo, tuttavia, sempre la citata sentenza delle Sezioni Unite ha sottolineato come la nozione di risparmio di spesa presupponga un ricavo introitato e non decurtato dei costi che si sarebbero dovuti sostenere, vale a dire un risultato economico positivo concretamente determinato dalla contestata condotta criminosa. Di conseguenza, tale nozione non può essere intesa in termini assoluti, quale profitto cui non corrispondano beni materialmente entrati nella sfera di titolarità del responsabile, ossia entro una prospettiva limitata all’apprezzamento del mancato aumento del passivo, ma deve necessariamente intendersi in relazione ad un “ricavo introitato” dal quale non siano stati detratti i costi che si sarebbero dovuti sostenere, ossia nel senso di una non diminuzione dell’attivo. Occorre, quindi, un profitto materialmente conseguito, ma di entità superiore a quello che sarebbe stato ottenuto senza omettere l’erogazione delle spese dovute.
È il rispetto del principio di tassatività delle sanzioni ad escludere, in assenza di un introito effettivo, la possibilità di assoggettare alla confisca per equivalente il valore dei costi illegittimamente non sostenuti dall’ente collettivo per effetto della mancata adozione di misure preventive espressamente prescritte dalla legge negli specifici settori di riferimento.
Per intervenire su tale risparmio sarebbe necessaria una specifica “autorizzazione” normativa, a maggior ragione ove si consideri quanto accaduto per i reati tributari, in relazione ai quali, prima dell’introduzione della confisca per equivalente (art. 1 comma 143 della L. 244/2007), il profitto concretantesi nel mancato pagamento del tributo (quindi non tanto un risparmio quanto un inadempimento ad un’obbligazione preesistente, liquida ed esigibile) non poteva essere assoggettato alla confisca ex art. 240 c.p., in quanto, benché il valore sottratto coincidesse con elementi già presenti e rinvenibili nella sfera patrimoniale del reo, non rientrava “stricto sensu” nel concetto di “provenienza da reato”.